La rivista della DSC per
lo sviluppo e la cooperazione
DEZA
Testo: di Samuel SchlaefliEdizione: 01/2023

Specie ed ecosistemi scompaiono a ritmo allarmante. Da oltre 30 anni, si cerca di fermare la progressiva distruzione degli ambienti naturali attraverso la cooperazione multilaterale. Finora con scarso successo. Con un nuovo quadro normativo globale, la comunità internazionale vuole proteggere meglio la biodiversità.

Settembre 2019, foresta in fiamme vicino a una piantagione di palme da olio, a Kamipang, in Indonesia. Vari studi dimostrano che la distruzione dei boschi aumenta la probabilità di trasmissione di virus e altri agenti patogeni dalla fauna selvatica all'essere umano.  © Ulet Ifansasti/NYT/Redux/laif
Settembre 2019, foresta in fiamme vicino a una piantagione di palme da olio, a Kamipang, in Indonesia. Vari studi dimostrano che la distruzione dei boschi aumenta la probabilità di trasmissione di virus e altri agenti patogeni dalla fauna selvatica all'essere umano. © Ulet Ifansasti/NYT/Redux/laif

La «Lista rossa delle specie minacciate» dell'Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN) è un documento fondamentale per conoscere lo stato della biodiversità a livello globale. La IUCN ha censito 147'500 specie animali, fungine e vegetali, di cui oltre 41'000 sono attualmente minacciate di estinzione. Questi dati ci ricordano che la biodiversità è in pericolo.

«È normale che alcune specie scompaiano», afferma Bruno Oberle, direttore generale della IUCN. «Il nostro pianeta non è un museo, ma una realtà in continuo cambiamento. Questa progressiva estinzione avviene però a una velocità da 100 a 1000 volte maggiore rispetto agli ultimi cento anni». È un'evoluzione che provoca la perdita di interi ecosistemi. La moria delle api, insetti responsabili dell'impollinazione, causa la scomparsa degli alberi da frutto in Nuova Zelanda e favorisce la desertificazione in alcune zone dell'Africa e della Cina. Oberle paragona gli ecosistemi a internet: «Le singole connessioni possono interrompersi, ma ciò non blocca necessariamente la rete. Ad un certo punto, però, tutto il sistema inevitabilmente andrà in tilt».

Ma per la biodiversità dove si trovano questi punti di non ritorno? È una questione poco studiata dal mondo scientifico, molto meno della crisi climatica. Eppure sarebbe importante conoscere quando, raggiunto un certo livello, l'estinzione delle specie subirebbe un'accelerata inarrestabile. «Il drastico calo della biodiversità è probabilmente un rischio ancora maggiore per l’umanità di quello del cambiamento climatico», afferma Oberle. «Per il momento, la maggior parte delle persone non se ne rende però conto». Le previsioni sono però allarmanti: in un rapporto del 2019, il Consiglio mondiale della biodiversità delle Nazioni Unite (IPBES) ha dichiarato che fino a un milione di specie animali e vegetali sono minacciate di estinzione e molte potrebbero scomparire per sempre nei prossimi decenni.

Gli ecosistemi distrutti portano alla povertà

Le ragioni dell'attuale estinzione di massa sono ovvie. Per soddisfare la richiesta di risorse a livello mondiale dovremmo avere a disposizione una Terra e mezza. Se tutti vivessero come gli abitanti della Svizzera, avremmo addirittura bisogno di tre pianeti. Come per il clima, la crisi della biodiversità colpisce in maniera iniqua la popolazione mondiale. Le famiglie povere, i piccoli agricoltori e i gruppi indigeni del Sud del mondo subiscono le conseguenze maggiori, anche se sono quelli che consumano meno risorse.

Buona parte degli esperti dello sviluppo indica che senza una protezione efficace della biodiversità non sarà possibile raggiungere i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile dell'Agenda 2030. Infatti, solo in un ambiente sano è possibile perseguirli, mentre gli ecosistemi distrutti portano alla povertà e alla disuguaglianza.

L'ONU lotta da tempo contro questo fenomeno. In occasione del grande vertice sull'ambiente e sullo sviluppo tenutosi a Rio de Janeiro nel 1992, non solo è stato creato un quadro normativo per il problema del clima (UNFCCC), ma è stata firmata anche una convenzione sulla biodiversità (CBD). È il più importante trattato multilaterale per la protezione della biodiversità.

Finora hanno aderito alla convenzione 196 Stati, tra cui la Svizzera. Anche gli Stati Uniti l'hanno sottoscritta, ma non l'hanno ancora ratificata; vi partecipano solo in qualità di osservatori. I firmatari si impegnano a proteggere la biodiversità sul loro territorio, ad adottare misure per la sua conservazione e il suo uso sostenibile e a regolamentare l'accesso e l'uso delle risorse genetiche in modo equo.

Obiettivo globale con impatto limitato

Nell'aprile 2002, la comunità internazionale si è posta l'obiettivo di ridurre significativamente il tasso di perdita di biodiversità entro il 2010. Visto che questo traguardo non è stato raggiunto, nell'ottobre 2010 a Nagoya è stato adottato il piano strategico globale per la biodiversità 2011-2020, incentrato sui 20 «Obiettivi di Aichi per la biodiversità». Gli obiettivi comprendono la protezione delle foreste, il contenimento del consumo di risorse e la creazione di nuove riserve naturali. Erano previste anche la riduzione di sussidi dannosi e l'integrazione degli obiettivi per la biodiversità nelle misure di sviluppo e riduzione della povertà a livello locale e nazionale. In Svizzera, il Consiglio federale ha adottato una prima strategia nazionale per la biodiversità nel 2012, concretizzata in un piano d'azione nel 2017.

Nel Global Biodiversity Outlook 2020 sono stati analizzati i risultati conseguiti rispetto agli Obiettivi di Aichi. Il bilancio è sconfortante: a livello globale, nessuno dei 20 obiettivi è stato pienamente raggiunto e solo sei sono stati parzialmente realizzati. Inoltre, solo il 23 per cento degli obiettivi nazionali rispecchiava gli Obiettivi di Aichi in termini di ambizione e portata. Alla 15a Conferenza delle parti (COP), tenutasi a Montreal nel dicembre 2022, è stato quindi negoziato un nuovo quadro globale per la biodiversità (vedi testo in calce sulla «COP15»). L'obiettivo generale è fermare la perdita di biodiversità entro il 2030 e di garantire una «vita in armonia con la natura» entro il 2050.

Passi avanti alla Conferenza sulla biodiversità COP15

Il documento finale della quindicesima Conferenza sulla biodiversità, tenuta a Montreal dal 7 al 19 dicembre 2022, è stato salutato come un importante passo avanti da politici, società civile e associazioni ambientaliste. I 196 Stati firmatari della Convenzione sulla biodiversità si sono accordati su un nuovo quadro globale comprendente 23 obiettivi. Tra questi proteggere entro il 2030 il 30 per cento delle aree terrestri, delle coste, dei mari e delle acque interne in favore della biodiversità. Inoltre, nel testo viene menzionato a più riprese il rispetto dei gruppi indigeni ed evidenziato il loro ruolo fondamentale nella protezione degli habitat naturali di specie animali e vegetali. L'accordo prevede anche l'abbandono dei sussidi dannosi per l'ambiente, soprattutto quelli destinati al settore agricolo. In futuro, le grandi multinazionali dovranno rendere conto dell'impatto delle loro attività sulla biodiversità. Tra l'altro, è prevista la creazione di un fondo per risarcire gli Stati ricchi di specie, soprattutto nel Sud globale, per l'impiego a scopi commerciali delle informazioni sulle sequenze digitali delle risorse genetiche. Non tutti sono però soddisfatti del nuovo quadro normativo. La delegazione della Repubblica Democratica del Congo, Paese con un tasso di biodiversità tra i più alti al mondo, ha gridato allo scandalo quando la presidenza cinese ha fatto approvare in tutta fretta il trattato senza prendere sul serio le richieste di alcuni Paesi del Sud globale.

Una sfida anche per la Svizzera

«Gli Obiettivi di Aichi erano validi, ma visto che sono stati implementati in misura insufficiente, non hanno raggiunto l'impatto desiderato», afferma Niklaus Wagner, ricercatore della Sezione Convenzioni di Rio presso l'Ufficio federale dell'ambiente (UFAM). «Per i nuovi obiettivi servono indicatori uniformi per misurare l'impatto e un migliore reporting e monitoraggio dell'attuazione». Per essere efficaci, i nuovi obiettivi per la biodiversità vanno formulati in combinazione con gli indicatori. Per questo motivo vanno negoziati insieme.

Aisha Sow, collaboratrice in una cooperativa agricola, controlla la qualità del raccolto di una contadina in Senegal. Coltivare fagioli e non solo patate promuve la biodiversità e l'alimentazione sana.  © Jason Florio/Redux/laif
Aisha Sow, collaboratrice in una cooperativa agricola, controlla la qualità del raccolto di una contadina in Senegal. Coltivare fagioli e non solo patate promuve la biodiversità e l'alimentazione sana. © Jason Florio/Redux/laif

Per Wagner, un punto centrale del nuovo quadro di riferimento è costituito dall'obiettivo «30 by 30». Entro il 2030, il 30 per cento delle superfici terrestri e marine globali dovrebbe essere destinato alla tutela della biodiversità, tra l'altro attraverso la designazione di aree protette, la rivitalizzazione dei fiumi e il mantenimento dei corridoi migratori che servono a collegare fra loro gli habitat della fauna selvatica.

Un obiettivo ambizioso che rappresenta una sfida anche per la Svizzera. Attualmente, solo il 13,4 per cento del territorio nazionale è designato come zona di protezione della biodiversità. I conflitti di interesse sono inevitabili, perché le aree protette non possono più essere sfruttate per l'agricoltura intensiva. Alcuni Paesi sostengono che questo obiettivo mette in pericolo la sicurezza alimentare. Le organizzazioni della società civile criticano invece il fatto che ad essere toccati sarebbero i gruppi indigeni. Questi vivono spesso nelle aree che andrebbero protette per raggiungere l'obiettivo «30 by 30».

Un percorso accidentato verso un'agricoltura biodiversa

L'agricoltura e il sistema alimentare globale hanno un ruolo fondamentale nella tutela della biodiversità. Il modo con cui ci alimentiamo ha causato infatti il 70 per cento della perdita della biodiversità terrestre. A livello mondiale, il 33 per cento dello strato superiore del suolo è degradato, in gran parte a causa della Rivoluzione verde e di un'agricoltura basata sull'uso eccessivo di fertilizzanti e pesticidi. L'80 per cento della deforestazione globale è opera di chi vuole creare spazio per i pascoli o i terreni agricoli.

Per questo motivo, diversi obiettivi di Aichi puntano esplicitamente alla trasformazione dell'agricoltura. È un cambiamento che richiede però tempo. «È ancora ampiamente diffusa l'idea di intensificare lo sfruttamento di determinate aree per 'metterne a riposo' e proteggerne altre. È un comportamento insostenibile e antisociale», afferma Simon Degelo, responsabile del dossier sulle sementi e sulla biodiversità presso l'ONG svizzera Swissaid. «Bisogna piuttosto preservare e promuovere la biodiversità all'interno dell'agricoltura».

Nei suoi progetti di sviluppo, Swissaid punta perciò su pratiche agroecologiche. «Le monocolture, basate spesso su varietà di cereali ibridi, sono un rischio non solo ecologico, ma anche economico perché richiedono molti fertilizzanti e altri additivi chimici», afferma Degelo. «In una monocultura, basta un unico parassita per distruggere l'intero raccolto. La diversità nell'agricoltura rafforza la resilienza, anche nei confronti delle catastrofi climatiche».

Cooperazione allo sviluppo e obiettivi

Un progetto di agroecologia concreto è quello promosso nel dipartimento di Boyacá, nel Nord-est della Colombia, sostenuto dalla DSC e dal Global Environment Facility (GEF), un fondo globale per la conservazione della natura. Nella regione, la produzione agricola è diminuita drasticamente negli ultimi anni, perché la coltivazione intensiva delle patate ha ridotto la fertilità del suolo. Parallelamente è aumentato sempre più l'impiego di fertilizzanti e pesticidi. Di conseguenza, le persone hanno cercato un'ulteriore opportunità di reddito nelle miniere di carbone clandestine presenti nella riserva naturale.

Una famiglia di piccoli contadini presenta le varietà di verdure coltivate nell'orto.  © Swissaid Columbia
Una famiglia di piccoli contadini presenta le varietà di verdure coltivate nell'orto. © Swissaid Columbia

Swissaid ha aiutato gli agricoltori di sei comunità a coltivare antiche varietà di piante e a proteggere la biodiversità della regione attraverso una gestione sostenibile dei pascoli. Invece delle monocolture di patate, ora si piantano anche mais, grano, quinoa, fagioli, piselli, lenticchie e cavoli. Una scelta che promuove non solo la varietà di specie vegetali nei campi, ma anche una sana alimentazione e l'indipendenza dalle importazioni. Per Degelo si tratta di un buon esempio di come la cooperazione allo sviluppo possa contribuire concretamente al raggiungimento degli obiettivi di biodiversità.

Swissaid sostiene inoltre la creazione di banche e reti di sementi per gli agricoltori del Sud del mondo. «Per un'agricoltura diversificata, si deve poter far capo a una grande varietà di sementi», spiega Degelo. «Gli agricoltori devono poter scegliere, ma in molti Paesi non hanno più questa possibilità». Le grandi aziende produttrici di sementi stanno sempre più privatizzando le risorse genetiche, soprattutto se i brevetti coprono anche le varietà coltivate in modo convenzionale.

Secondo Degelo, i Paesi del Sud globale cedono spesso alle pressioni dei Paesi industrializzati e dell'industria sementiera e introducono leggi più severe che impediscono addirittura alle famiglie di piccoli agricoltori di impiegare le sementi tradizionali. Nei negoziati per un nuovo quadro di riferimento per la biodiversità, deve quindi essere tutelato anche il diritto degli agricoltori di disporre liberamente delle proprie sementi.

Uso e commercializzazione delle risorse genetiche

Un'altra questione controversa è quella dell'«Access and Benefit Sharing» (ABS), ossia l'equa condivisione dei benefici derivanti dall'uso delle risorse genetiche, ad esempio di una pianta medicinale per lo sviluppo di farmaci. Il Protocollo di Nagoya prevede che le aziende, gli istituti di ricerca e gli Stati negozino bilateralmente un equo compenso. Tuttavia, l'attuazione pratica comporta delle difficoltà e Degelo ricorda che finora i Paesi di provenienza delle risorse genetiche non hanno praticamente ricevuto compensi.

I Paesi in via di sviluppo temono che la digitalizzazione possa accrescere ulteriormente la disparità dei profitti derivanti dalle risorse genetiche. Oggi, spesso basta conoscere la sequenza digitale del materiale genetico di una pianta per individuare e commercializzare le sue proprietà. Il Protocollo di Nagoya regola l'uso delle risorse genetiche fisiche, ma i Paesi sono in disaccordo sull'applicazione di queste norme alle informazioni sulle sequenze digitali. Per la Svizzera è importante che la ricerca possa accedere a queste informazioni per promuovere le innovazioni, afferma Niklaus Wagner dell'UFAM. «Nel quadro dei negoziati, la Svizzera sta cercando attivamente soluzioni praticabili che tengano conto anche delle esigenze dei Paesi in via di sviluppo».

Migliaia di miliardi per la protezione della biodiversità

Il finanziamento è una questione fino ad oggi in gran parte irrisolta. In che misura i singoli Stati sono responsabili della crisi della biodiversità e in che misura partecipano al finanziamento delle misure di protezione? Nel 2021, il Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente (UNEP) ha calcolato che entro il 2050 saranno necessari investimenti per 8100 miliardi di dollari per combattere efficacemente le crisi correlate del clima, della biodiversità e della perdita di territorio.

Una mandria nei pressi del fiume Mzimvubu, in Sudafrica: lo sfruttamento sostenibile dei pascoli protegge la biodiversità.  © Obie Oberholzer/laif
Una mandria nei pressi del fiume Mzimvubu, in Sudafrica: lo sfruttamento sostenibile dei pascoli protegge la biodiversità. © Obie Oberholzer/laif

«Sembra molto, ma sono solo pochi punti percentuali del prodotto nazionale lordo globale», dice il direttore generale dell'IUCN Bruno Oberle. Inoltre mantenere il ritmo attuale della perdita di biodiversità, avrebbe un prezzo ancora più alto per l'umanità. Basti ricordare che circa la metà del prodotto nazionale lordo dipende direttamente da una biodiversità sana. Ad esempio, la produzione alimentare necessita di impollinatori come le api. Se scompaiono, non ci sono più raccolti.

Secondo Oberle, tutti – Stati, economia, agenzie di sviluppo e fondazioni – devono contribuire a finanziare la tutela della biodiversità, i cui costi annuali sono stimati a 700 miliardi di dollari. Il Fondo mondiale per l'ambiente (Global Environment Facility, GEF) non riuscirà di certo a colmare il deficit di finanziamento. L'organizzazione è stata istituita dalla Banca mondiale con lo scopo di promuovere e sostenere i progetti ambientali nei Paesi in via sviluppo.

Oberle indica che si dovrebbe operare a livello dei bilanci pubblici per smuovere davvero qualcosa. «Ogni anno si versano dai 600 ai 700 miliardi di dollari in sussidi per pratiche che danneggiano la biodiversità». Sono contributi che vengono utilizzati per finanziare i fertilizzanti chimici o per sostenere la produzione di carne. L'esperto è convinto che «se questi fondi venissero spesi per pratiche rigenerative volte a promuovere la biodiversità, potremmo raggiungere gli obiettivi globali di biodiversità nonostante le enormi sfide».

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