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DEZA
Testo: Intervista di Christian ZeierEdizione: 02/2020

Il dottor Norman Sartorius ha diretto per 16 anni il Dipartimento di salute mentale dell'OMS ed è considerato uno degli psichiatri più influenti al mondo. Nell'intervista parla del generale disinteresse nei confronti dei disturbi psichici, dei principali progressi compiuti negli ultimi decenni e della funzione modello di alcuni Paesi in via di sviluppo.

Signor Sartorius, per molto tempo si è pensato che le malattie mentali fossero un problema soprattutto dei Paesi più ricchi.

In effetti, esisteva questo mito del «selvaggio felice» che non conosce la malattia psichica. Ma svariati rapporti e la ricerca epidemiologica hanno gradualmente modificato questa credenza. Inoltre, dopo l'indipendenza le popolazioni residenti nelle colonie hanno cominciato a far sentire la loro voce. Ci si è quindi resi conto di quanto sia trascurata la salute mentale nei Paesi in via di sviluppo.

Come collaboratore dell'OMS, ha vissuto personalmente questa generale mancanza di attenzione nei confronti delle malattie mentali.

Sì, era una lotta costante. Ricevevamo solo l'1,5 per cento dei fondi dell'OMS, anche se i disturbi psichici sono responsabili del 40 per cento di tutti i casi di disabilità lavorativa a livello globale. Dovevamo supplicare gli Stati membri di finanziare i nostri progetti.

La situazione è migliorata?

Per quanto riguarda le risorse, no. Ma almeno oggi il problema è almeno stato riconosciuto. La gente non è più così ignorante e insensibile nei confronti delle malattie psichiche.

Perché in Paesi come la Somalia si investe molto nella ricostruzione, ma poco nella cura della salute mentale?

Se non ci sono psichiatri, chi può difendere i malati psichici? Inoltre, in questi Paesi mancano spesso i dati statistici per inquadrare il problema. Per questo motivo è difficile convincere qualcuno della necessità di intervenire. Oltre a ciò, le malattie mentali, nella loro forma estrema, spaventano, perché è difficile dialogare con chi ne è affetto. E poi molti non sanno che è possibile aiutarli.

Va ricordato anche che la mancanza di investimenti ha un impatto negativo sullo sviluppo del Paese. È come un gatto che si morde la coda.

Giusto. Inoltre, in molti Paesi la formazione psichiatrica è stata introdotta lentamente soltanto negli ultimi 20-30 anni. Sono ancora tanti i medici che sanno ben poco della psiche umana e della malattia mentale. Se poi è uno di questi a diventare ministro della sanità…

Come si può spezzare questo circolo vizioso?

Con una strategia che definirei di «opportunismo illuminato». Se ci sono molti invalidi con malattie psichiche dopo una guerra, il governo è più disposto ad ascoltare. O se una persona vicina a un uomo di Stato soffre di un disturbo psichico, si può sperare in una migliore comprensione e in un maggiore impegno a favore della psichiatria. Personalmente, ho investito moltissimo tempo nella ricerca delle persone giuste che mi affiancassero in questa battaglia. Questi psichiatri non si impegnano soltanto per il trattamento di singoli pazienti, ma per la salute mentale pubblica nel suo insieme.

Lei ha iniziato all'OMS nel 1967. Cosa è migliorato da allora?

È stato fatto molto, ma era possibile fare di più. Un enorme passo avanti è stato indubbiamente compiuto grazie agli psicofarmaci. Improvvisamente per curare un paziente gli si poteva somministrare un medicamento. Poi ci sono stati molti professionisti che si sono formati all'estero e hanno poi sviluppato la psichiatria nel loro Paese. Inoltre, si sono attuati alcuni programmi che hanno contrastato con successo la stigmatizzazione delle malattie mentali.

Qual è il modo migliore per combattere la stigmatizzazione?

Il modo migliore è quello di riunire le persone. Per esempio, le persone che hanno sofferto di una malattia psichica possono raccontare la loro esperienza nelle scuole. Se vedono che la persona ha vissuto una brutta esperienza, ma ora assomiglia a tutti gli altri, gli studenti possono modificare la loro percezione.

Lei ha svolto delle ricerche per individuare in che modo si differenziano le malattie mentali nei Paesi industrializzati e in quelli in via di sviluppo.

Abbiamo confrontato Paesi molto diversi tra loro, come l'Inghilterra, la Nigeria e la Colombia, e abbiamo scoperto che la schizofrenia è diffusa in modo simile ovunque. Tuttavia, i nostri studi hanno dimostrato che il decorso della malattia è più positivo nei Paesi in via di sviluppo che in quelli ricchi, anche se nei primi le possibilità di curare le persone affette sono decisamente più limitate.

Com'è possibile?

È probabile che negli Stati più poveri la pressione sui pazienti sia inferiore. Nello studio sulla schizofrenia, abbiamo anche analizzato il modo in cui l'ambiente delle persone interessate affrontavano la malattia. Nei Paesi in via di sviluppo, i membri della famiglia e le altre persone vicine alla persona affetta formulavano commenti molto meno critici. Erano più tolleranti, avevano più pazienza e mettevano meno sotto pressione il malato affinché tornasse alla vita di tutti i giorni. Se non ci aspettiamo che una persona funzioni perfettamente subito dopo una malattia, questa guarirà più facilmente.

I Paesi industrializzati possono quindi apprendere anche dai Paesi in via di sviluppo?

Da noi, l'indipendenza e l'autonomia dell'individuo sono dei pilastri fondamentali della società. L'autonomia è importante, ma anche pericolosa. Non dobbiamo dimenticare che non possiamo sopravvivere da soli. Se non siamo disposti a sostenerci maggiormente a vicenda e a salvaguardare i legami famigliari o di altro tipo, le nostre società rischiano di fallire. In questo ambito, possiamo imparare molto dai Paesi in via di sviluppo.

«Le malattie mentali, nella loro forma estrema, spaventano, perché è difficile capire chi ne è affetto»

Va ricordato anche che la mancanza di investimenti ha un impatto negativo sullo sviluppo del Paese. È come un gatto che si morde la coda.

Giusto. Inoltre, in molti Paesi la formazione psichiatrica è stata introdotta lentamente soltanto negli ultimi 20-30 anni. Sono ancora tanti i medici che sanno ben poco della psiche umana e della malattia mentale. Se poi è uno di questi a diventare ministro della sanità…

Come si può spezzare questo circolo vizioso?

Con una strategia che definirei di «opportunismo illuminato». Se ci sono molti invalidi con malattie psichiche dopo una guerra, il governo è più disposto ad ascoltare. O se una persona vicina a un uomo di Stato soffre di un disturbo psichico, si può sperare in una migliore comprensione e in un maggiore impegno a favore della psichiatria. Personalmente, ho investito moltissimo tempo nella ricerca delle persone giuste che mi affiancassero in questa battaglia. Questi psichiatri non si impegnano soltanto per il trattamento di singoli pazienti, ma per la salute mentale pubblica nel suo insieme.

Lei ha iniziato all'OMS nel 1967. Cosa è migliorato da allora?

È stato fatto molto, ma era possibile fare di più. Un enorme passo avanti è stato indubbiamente compiuto grazie agli psicofarmaci. Improvvisamente per curare un paziente gli si poteva somministrare un medicamento. Poi ci sono stati molti professionisti che si sono formati all'estero e hanno poi sviluppato la psichiatria nel loro Paese. Inoltre, si sono attuati alcuni programmi che hanno contrastato con successo la stigmatizzazione delle malattie mentali.

Qual è il modo migliore per combattere la stigmatizzazione?

Il modo migliore è quello di riunire le persone. Per esempio, le persone che hanno sofferto di una malattia psichica possono raccontare la loro esperienza nelle scuole. Se vedono che la persona ha vissuto una brutta esperienza, ma ora assomiglia a tutti gli altri, gli studenti possono modificare la loro percezione.

Lei ha svolto delle ricerche per individuare in che modo si differenziano le malattie mentali nei Paesi industrializzati e in quelli in via di sviluppo.

Abbiamo confrontato Paesi molto diversi tra loro, come l'Inghilterra, la Nigeria e la Colombia, e abbiamo scoperto che la schizofrenia è diffusa in modo simile ovunque. Tuttavia, i nostri studi hanno dimostrato che il decorso della malattia è più positivo nei Paesi in via di sviluppo che in quelli ricchi, anche se nei primi le possibilità di curare le persone affette sono decisamente più limitate.

Com'è possibile?

È probabile che negli Stati più poveri la pressione sui pazienti sia inferiore. Nello studio sulla schizofrenia, abbiamo anche analizzato il modo in cui l'ambiente delle persone interessate affrontavano la malattia. Nei Paesi in via di sviluppo, i membri della famiglia e le altre persone vicine alla persona affetta formulavano commenti molto meno critici. Erano più tolleranti, avevano più pazienza e mettevano meno sotto pressione il malato affinché tornasse alla vita di tutti i giorni. Se non ci aspettiamo che una persona funzioni perfettamente subito dopo una malattia, questa guarirà più facilmente.

I Paesi industrializzati possono quindi apprendere anche dai Paesi in via di sviluppo?

Da noi, l'indipendenza e l'autonomia dell'individuo sono dei pilastri fondamentali della società. L'autonomia è importante, ma anche pericolosa. Non dobbiamo dimenticare che non possiamo sopravvivere da soli. Se non siamo disposti a sostenerci maggiormente a vicenda e a salvaguardare i legami famigliari o di altro tipo, le nostre società rischiano di fallire. In questo ambito, possiamo imparare molto dai Paesi in via di sviluppo.

NORMAN SARTORIUSè nato in Germania nel 1935 ed è cresciuto in Croazia. Si è specializzato in neurologia e psichiatria e ha conseguito un dottorato in psicologia. Nel 1967 ha iniziato a lavorare per l'Organizzazione mondiale della sanità (OMS), dove ha condotto numerosi studi internazionali sulla schizofrenia, sulla depressione e sull'assistenza sanitaria. Tra il 1977 e il 1993 ha diretto il Dipartimento di salute mentale dell'OMS, poi l'Associazione mondiale di psichiatria e l'Associazione europea di psichiatria. Ha insegnato, tra l'altro, presso le università di Zagabria, Londra e Ginevra. La pubblicazione specializzata The Lancet lo ha definito una «leggenda vivente della psichiatria». Il dottor Sartorius vive con la moglie a Ginevra.

© mad
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