La rivista della DSC per
lo sviluppo e la cooperazione
DEZA
Testo: Katrin GänslerEdizione: 04/2019

IN QUESTO DOSSIER

  • Articolo: IL SAHEL, UNA POLVERIERA

  • Articolo: DALL'AIUTO UMANITARIO ALLE SCUOLE MOBILI

  • Intervista: «BISOGNA FAR TACERE LE ARMI»

  • Articolo: IMPARA SEMPRE, OVUNQUE TI TROVI

  • Articolo: LE DONNE, PROTAGONISTE DEL CAMBIAMENTO

  • Articolo: FATTI & CIFRE

Il Sahel, una polveriera

Gli Stati del Sahel nell’Africa occidentale sono messi a dura prova da innumerevoli problemi. Negli ultimi anni, oltre alla siccità, al cambiamento climatico e alla crescita demografica devono lottare anche contro un numero crescente di gruppi terroristici. Per quanto tempo resisterà ancora questa fragile area?

© Adam Ferguson/The New York Times
© Adam Ferguson/The New York Times

La cittadina di Barsalogho si trova a più di tre ore d’auto da Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso. Le piste sassose e sconnesse mettono a dura prova il fuoristrada e se non si guida con prudenza si rischia di danneggiare il sottoscocca. La strada è costeggiata da cespugli spinosi, di tanto in tanto da qualche albero. A Barsalogho, nella regione Centre-Nord del Burkina Faso, ci sono un centro sanitario, una scuola e alcuni negozi che vendono prodotti di prima necessità. Proprio qui è stato allestito un campo per sfollati, dove all’inizio di gennaio si sono rifugiati i sopravvissuti a un attacco nella vicina città di Yirgou perpetrato da un gruppo terroristico.

Dal Senegal al Sudan

Nel campo profughi è difficile rifarsi una vita. Non c’è nemmeno l’acqua. I tentativi di trivellare un pozzo sono stati infruttuosi e l’acqua viene trasportata con autocisterne da un villaggio che si trova a 25 chilometri. In simili condizioni è impensabile coltivare cereali e ortaggi. Il suolo è duro, impoverito e pieno di crepe. Il sole cocente è quasi insopportabile. Qui sono davvero poche le prospettive, sia per i residenti che per gli sfollati. In pochi chilometri quadrati, a Barsalogho si è confrontati con tutti i problemi che attanagliano la regione del Sahel, la fascia di territorio che si estende dal Senegal, sull’Oceano Atlantico, al Sudan, sul Mar Rosso, e interessa porzioni più o meno estese di nove Stati.

I cambiamenti climatici si fanno sentire ovunque. Anche se nella loro lingua i contadini non sempre hanno un termine per indicare questo fenomeno, descrivono con precisione come sono cambiate le stagioni delle piogge e i volumi d’acqua. In alcune zone ha piovuto così poco che è ormai impossibile coltivare i campi, diventati duri come pietra. Le superfici arabili sono un bene raro e a causa della carestia i prezzi delle derrate alimentari sono aumentati. Le Nazioni Unite stimano che a causa della progressiva desertificazione la regione abbia già perso l’ottanta per cento delle terre coltivabili. I sistemi di irrigazione, soprattutto per la coltivazione di ortaggi, sono costosi e senza un sostegno esterno non possono essere realizzati dai villaggi. «La regione è una delle più vulnerabili ai mutamenti climatici», ha ricordato nel novembre 2018 Ibrahim Thiaw, il segretario esecutivo della Convenzione delle Nazioni Unite per la lotta alla desertificazione (UNCCD).

La regione più povera del pianeta

Oltre ad essere tra le più vulnerabili, questa area è anche la più povera e meno sviluppata del mondo. Negli ultimi anni, il Niger, uno degli Stati del Sahel, si è piazzato regolarmente in coda all’Indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite. Stando ai dati della Banca mondiale, su base annua il reddito medio pro capite è di soli 411 dollari. Ad essere elevata è unicamente la nata

lità: in media le donne nigeriane danno alla luce 7,2 figli. Negli ultimi anni il tasso è rimasto praticamente invariato. Secondo le stime dell’organizzazione statunitense Population Reference Bureau (PRB), l’attuale popolazione di 22,4 milioni di abitanti triplicherà entro il 2050. Per frenare questa evoluzione, le organizzazioni non governative stanno cercando di rendere più popolare la pianificazione familiare, nonostante l’opposizione dei leader religiosi e dei capi tradizionali. Oggi, soltanto il 16,2 per cento delle donne usa metodi di contraccezione moderni, difficili da reperire soprattutto nei villaggi.

L’assistenza sanitaria nelle regioni rurali è insufficiente e certo non migliorerà visto lo sviluppo demografico. Inoltre mancano scuole e negli agglomerati urbani c’è penuria di alloggi a prezzi accessibili, anche a causa dei flussi di popolazione dalle zone rurali. I terreni adatti all’agricoltura o all’allevamento di bestiame sono già oggi molto contesi. In un simile contesto, soprattutto per i giovani è difficile immaginarsi un futuro. In Niger il 68 per cento della popolazione ha meno di 25 anni.

Gli Stati del Sahel

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Senegal
Capitale: Dakar
Popolazione: 16 mio di abitanti
Crescita annua del PIL: 7,2%
Aspettativa di vita: 67 anni

Mauritania
Capitale: Nouakchott
Popolazione: 4,2 mio di abitanti
Crescita annua del PIL: 3,2%
Aspettativa di vita: 63 anni

Mali
Capitale: Bamako
Popolazione: 19,1 mio di abitanti
Crescita annua del PIL: 4,9%
Aspettativa di vita: 58 anni

Burkina Faso
Capitale: Ouagadougou
Popolazione: 19,8 mio di abitanti
Crescita annua del PIL: 6,5%
Aspettativa di vita: 61 anni

Niger
Capitale: Niamey
Popolazione: 22,4 mio di abitanti
Crescita annua del PIL: 5,2%
Aspettativa di vita: 60 anni

Nigeria
Capitale: Abuja
Popolazione: 191 mio di abitanti
Crescita annua del PIL: 1,9%
Aspettativa di vita: 53 anni

Ciad
Capitale: N’Djamena
Popolazione: 15,5 mio di abitanti
Crescita annua del PIL: 2,6%
Aspettativa di vita: 53 anni

Sudan
Capitale: Khartoum
Popolazione: 43 mio di abitanti
Crescita annua del PIL: 3,1%
Aspettativa di vita: 64 anni

Etiopia
Capitale: Addis Abeba
Popolazione: 106 mio di abitanti
Crescita annua del PIL: 10,2%
Aspettativa di vita: 64 anni

Eritrea
Capitale: Asmara
Popolazione: 5,1 mio di abitanti
Crescita annua del PIL: 5,0 %
Aspettativa di vita: 64 anni


DALL’ AIUTO UMANITARIO ALLE SCUOLE MOBILI

(zs) Nella regione del Sahel, la DSC è presente in Burkina Faso, Mali, Niger e Ciad. Per sostenere questi quattro Paesi nell’affrontare le complesse sfide dello sviluppo e della pace, il Dipartimento federale degli affari esteri elvetico mette in campo l’Aiuto umanitario, la Divisione Sicurezza umana e il Settore Cooperazione Sud. Gli ambiti di intervento spaziano dallo sviluppo economico e rurale, all’istruzione e formazione professionale, passando per buongoverno e pace. In quest’ultimo settore, la Svizzera incoraggia processi decisionali partecipativi a tutti i livelli: governo, autorità locali, settore privato e società civile. In questo modo, i cittadini influenzano la gestione pubblica nel rispetto dello Stato di diritto. L’obiettivo è di istituire dei servizi di base in ambiti come la sanità, la gestione delle risorse idriche e l’istruzione. In termini di sviluppo economico e rurale, l’impegno della Svizzera si concentra sulla sicurezza alimentare.

Per favorire la diversificazione della produzione e aumentare i redditi sostiene la modernizzazione delle aziende agricole a conduzione familiare, la gestione sostenibile delle risorse naturali, l’adattamento ai cambiamenti climatici, lo sviluppo delle filiere agro-silvo-pastorali e dell’artigianato.

La DSC sostiene le attività culturali per i giovani in Burkina Faso, creando nel contempo posti di lavoro (foto in alto) oppure promuove l’agricoltura, la selvicoltura e la pastorizia in Mali (foto a sinistra) © Jonathan Banks/eyevine/laif
La DSC sostiene le attività culturali per i giovani in Burkina Faso, creando nel contempo posti di lavoro (foto in alto) oppure promuove l’agricoltura, la selvicoltura e la pastorizia in Mali (foto a sinistra) © Jonathan Banks/eyevine/laif
© David Poole/robertharding/laif
© David Poole/robertharding/laif

Parità di genere

Nel settore dell’istruzione di base e della formazione professionale, un’attenzione particolare è rivolta alle esigenze delle popolazioni sfollate e nomadi. In Mali, per esempio, i bambini delle comunità nomadi, presenti in massa nel delta interno del fiume Niger, frequentano scuole mobili che si spostano con loro, muovendosi al ritmo delle transumanze.

Per la DSC, la parità di genere è fondamentale e occupa un posto prioritario nella strategia di cooperazione della Svizzera, soprattutto in Ciad. «Le donne sono un fattore chiave per la pace e lo sviluppo. La partecipazione delle donne ai meccanismi decisionali a livello locale e nazionale è una priorità», afferma Boris Maver, responsabile delle questioni di genere e vicecapo ad interim della Divisione Africa occidentale.

In Burkina Faso, ad occupare una posizione centrale è il settore culturale in quanto spazio privilegiato per l’espressione dei cittadini. La Svizzera sostiene attività artistiche a favore dei giovani, che contribuiscono alla coesione sociale e alla creazione di occupazione.

Timidi tentativi di stabilizzazione

Il Sahel è invece un terreno particolarmente fertile per i gruppi terroristici che da anni si stanno diffondendo nella regione, così come spacciatori, contrabbandieri e criminali. Fino a che punto questa situazione stia destabilizzando l'intera regione è emerso in tutta la sua drammaticità a partire dal 2011. Dapprima parte della popolazione tuareg nel Nord del Mali si è ribellata e ha voluto costituire il proprio Stato indipendente, l'Azawad. Poi nel marzo 2012 l'esercito ha compiuto un colpo di Stato contro il governo del presidente Amadou Toumani Touré. Nel contempo, diversi gruppi terroristici di matrice islamica hanno approfittato della confusione per occupare il Nord scarsamente popolato. Secondo l'organizzazione britannica Conflict Armament Research (CAR), la situazione è stata favorita dal tracollo dello Stato libico, da dove provenivano numerose armi.

Giornata di mercato nella cittàdi Gaoua nel Sud-ovest del BurkinaFaso: la vendita di recipienti d’argillagenera un reddito supplementare..  © Franck Guiziou/hemis/laif
Giornata di mercato nella cittàdi Gaoua nel Sud-ovest del BurkinaFaso: la vendita di recipienti d’argillagenera un reddito supplementare.. © Franck Guiziou/hemis/laif

Nel gennaio 2013, l'operazione Serval dell'esercito francese ha ridato speranza alla regione, una speranza durata però poco. Da allora, la crisi si è estesa dal Nord, con le città di Kidal, Timbuctù e Gao, al centro del Mali, coinvolgendo le città di Mopti e Sévaré dove si trovano terreni fertili lungo il fiume Niger. Finora né la Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite nel Mali (MINUSMA), né la Missione militare di addestramento dell'Unione europea (EUTM), con il coinvolgimento totale di oltre 15500 soldati e poliziotti, sono riuscite a migliorare la situazione.

Dal 2013 sono quasi 200 i caschi blu che hanno perso la vita nella regione, a riprova del fatto che questa è una delle missioni più pericolose al mondo. Da tempo le violenze si sono estese anche nel Burkina Faso, dove più volte a settimana vengono perpetrati attacchi a stazioni di polizia e postazioni militari. Anche la zona di confine del Niger è sempre più coinvolta.

Timore di nuovi attacchi

A livello regionale, nel 2014 la Mauritania, il Mali, il Burkina Faso, il Niger e il Ciad hanno istituito la Missione G5 Sahel per lottare contro terrorismo, traffico di esseri umani e criminalità organizzata. L'Unione europea è un importante donatore. Finora ha sostenuto questi Stati nei loro sforzi di stabilizzazione con 147 milioni di euro e lo scorso mese di luglio ne ha promessi altri 138 milioni. Complessivamente, otto miliardi di euro saranno destinati a progetti di sviluppo entro il 2020. Tuttavia, il G5 Sahel è tutt'altro che popolare a livello locale. Nel giugno del 2018, il quartier generale della forza congiunta ha subìto un attentato da parte di un gruppo di jihadisti. Il trasferimento a Sévaré a Bamako ha tutta l'aria di essere una ritirata e alimenta i timori di un nuovo attacco. «Naturalmente la preoccupazione è che questi sviluppi si estendano negli Stati costieri. È importante fare qualcosa», ha dichiarato il viceministro dell'informazione della Sierra Leone, Solomon Jamiru, a margine del vertice della Comunità economica degli Stati dell'Africa occidentale (ECOWAS) tenutosi di recente nella capitale nigeriana Abuja.

Tra i Paesi del G5 è il Ciad che i donatori internazionali vedono nel ruolo di guardiano della regione. Ne è consapevole il presidente Idriss Déby che due anni fa a Parigi ha dichiarato: «Il Ciad è la saracinescadel Sahel. Sostenerlo è nell'interesse del continente e della comunità internazionale». Per il periodo 2014-2020, l'UE si è impegnata a fornire al Paese, che dal 2015 non può più contare sui proventi delle esportazioni di petrolio, un sostegno finanziario di 789,3 milioni di euro. Il Fondo monetario internazionale (FMI) ha approvato un prestito di 300 milioni di dollari. Nel dicembre 2018, la Francia ha concesso prestiti per un totale di 40 milioni di euro per consentire al Ciad di pagare gli stipendi arretrati dei dipendenti pubblici. Lo Stato poggia su un sistema autocratico: Déby è al potere dal 1990, ha ripetutamente rinviato le elezioni e ha fatto parlare parecchio di sé bloccando per oltre un anno i social media.

Premio Nobel alternativo per un'area verde nel Sahel

Nel 2018, il Right Livelihood Award, il Premio Nobel alternativo, è stato conferito a due attivisti che da decenni si battono per la riforestazione della regione del Sahel: sono il burkinabé Yacouba Sawadogo e Tony Rinaudo, australiano residente in Niger. Da oltre 40 anni, Sawadogo diffonde e perfeziona l'antica tecnica agricola delle fosse zaï. Per la semina vengono scavate delle buche, riempite in seguito con terra, compost e letame per fornire sufficiente nutrimento alla pianta. Dal canto suo, l'australiano Rinaudo ha scoperto che è possibile far crescere nuove piante dalle vecchie radici nascoste nel terreno. Entrambi mostrano come l'impiego di tecniche semplici possa rendere la zona del Sahel più resistente e contribuire a frenare la progressiva desertificazione.

Lontano dalle città

Dal canto suo, il Mali è attraversato da una delle principali rotte migratorie verso il Nord Africa e l'Europa. La città di Gar, nella parte settentrionale del Paese, è uno degli snodi principali. I migranti preferiscono questa via, anche se più costosa, dopo che sono stati intensificati i controlli attorno al vecchio crocevia migratorio di Agadez, nel Niger. Chi si mette in viaggio sa che rischia di essere rapito dai passatori e dai trafficanti di uomini, che obbligano gli ostaggi a chiamare le famiglie a casa per chiedere loro di pagare un riscatto per la loro liberazione. Ma neppure questo spauracchio fa desistere chi vuole raggiungere l'Europa. Stando all'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, nei primi sette mesi di quest'anno 1900 maliani hanno affrontato la traversata del Mediterraneo, il numero più alto registrato tra gli Stati africani.

A causa del cambiamento climatico le stagioni delle piogge sono più brevi. A volte il pozzo più vicino si trova a chilometri di distanza.© François Perri/REA/laif
A causa del cambiamento climatico le stagioni delle piogge sono più brevi. A volte il pozzo più vicino si trova a chilometri di distanza.© François Perri/REA/laif

Inoltre, nelle zone rurali sono in aumento i massacri. Oltre a quello di Yirgou, in Burkina Faso, dove all'inizio di gennaio hanno perso la vita soprattutto peul – un'etnia diffusa in tutta l'Africa occidentale e che tradizionalmente alleva bestiame – nei mesi di marzo e giugno altri due attacchi sono stati perpetrati nel Mali centrale, causando diverse centinaia di morti. Secondo Issa Diallo, impiegato in un centro scientifico nazionale a Ouagadougou, le stragi fanno parte di una strategia volta a dividere il Paese, sfruttando i conflitti etnici. «Terroristi e malviventi hanno gioco facile», afferma Diallo. Solo nel Burkina Faso, alla fine di luglio il governo stimava a quasi 220 000 le persone in fuga. Dall'inizio dell'anno il loro numero è aumentato in maniera preoccupante.

Nelle capitali, le conseguenze di queste situazioni drammatiche si percepiscono solo sporadicamente. È proprio questo il problema. I governi centrali sono esitanti o addirittura non fanno niente per riportare un po' di stabilità. In fondo, dai loro uffici, il Sahel è molto lontano.

Katrin Gänsler è corrispondente per diversi media di lingua tedesca. Vive a Cotonou e Abuja e scrive regolarmente articoli sulla situazione negli Stati del Sahel.

Terreno fertile per i gruppi terroristici

Nel 2017, il gruppo fondamentalista islamico Ansar Dine, il Fronte di liberazione del Macina e il movimento jihadista Al-Mourabitoun si sono uniti e hanno dato vita all'organizzazione Jama'at Nusrat al-Islam wal-Muslimin (JNIM). Secondo l'ONG statunitense Armed Conflict Location and Event Data Project, il JNIM opera sempre più spesso in Burkina Faso e Niger e attacca i civili. Solo tra il novembre 2018 e il marzo 2019, almeno 4776 persone avrebbero perso la vita in violenti combattimenti in Mali, Burkina Faso e Niger. Nel Sud-est del Niger si verificano anche attacchi del gruppo terroristico nigeriano Boko Haram.


«BISOGNA FAR TACERE LE ARMI»

Nel Sahel si sono concentrate le maggiori sfide internazionali in materia di sicurezza, demografia e ambiente. Aminata Sy, direttrice della pianificazione territoriale presso la Commissione dell’Unione economica e monetaria ovest-africana ricorda le ragioni di questa situazione e indica su quali fronti è importante agire.

Signora Sy, lei è una specialista in materia di pianificazione e sviluppo territoriale. Come descriverebbe la regione del Sahel?

Si tratta di un’area strategica, ricca di conoscenze e di nozioni di vita pratica, ma anche di culture, scambi e saggezza. Ha enormi potenzialità.

A che cosa sta pensando?

L’allevamento e le attività agricole sono importanti fonti di sviluppo. Il Sahel non è una regione completamente arida: vi crescono ortaggi e cereali. Le risorse non mancano.

Eppure la popolazione non ha di che sfamarsi. Il riscaldamento globale e l’esplosione demografica favoriscono il degrado del suolo. Le economie stanno crollando. L’insicurezza è diffusa. È il terreno ideale per la radicalizzazione e l’estremismo. Perché la situazione continua a peggiorare?

In passato le popolazioni del Sahel convivevano pacificamente. Culturalmente non sono aggressive. E allora come mai sono diventate violente? La questione è molto complessa. La povertà è una possibile spiegazione, ma non è l’unica. Infatti, alla gente del Sahel basta poco per vivere. Le risorse minerarie alimentano la cupidigia e la posizione strategica della regione stuzzica gli appetiti.

Le crisi sono molteplici e interconnesse. Come si può spezzare questa drammatica spirale?

Dobbiamo assolutamente mettere a tacere le armi. Se non le si vendono più a chi uccide, queste smetteranno di circolare e rimarranno in silenzio. Ma chi le vende? Non lo so.

Un villaggio bruciato nel  Nord della Nigeria. Da anni  la popolazione soffre oltre  che per la fame anche  per gli attacchi del gruppo terroristico Boko Haram.  © Ashley Gilbertson/VII/Redux/laif
Un villaggio bruciato nel Nord della Nigeria. Da anni la popolazione soffre oltre che per la fame anche per gli attacchi del gruppo terroristico Boko Haram. © Ashley Gilbertson/VII/Redux/laif

Cosa sta facendo la Commissione dell’Unione economica e monetaria ovest-africana per disinnescare tutte le bombe a orologeria sparse nel Sahel?

Cofinanzia progetti inclusivi di cooperazione transfrontaliera portati avanti dalle stesse popolazioni. Per esempio abbiamo sostenuto la ricostruzione di un mercato comune situato a Téra, in Niger, a cui accedono anche i commercianti di Burkina Faso e Mali. Le strutture sono state consolidate con materiali più stabili del legno. I capannoni e i negozi, ora più grandi, stanno facendo rivivere questo polo di scambi commerciali. Tutti gli attori, Stati, partner tecnici e finanziari, devono unire le forze per costruire infrastrutture condivise, allo scopo di consolidare i legami.

Come possiamo rafforzare la resilienza delle popolazioni locali?

Esse devono avere la possibilità di decidere a quali iniziative e progetti dare la priorità. Per presentare le loro aspettative, prospettive e soluzioni, è importante riattivare le radio comunitarie.

La cooperazione allo sviluppo può aiutare questa regione?

Sì, certo, soprattutto a livello di istruzione e salute pubblica. Tuttavia, alcuni aspetti andrebbero migliorati: i meccanismi di finanziamento devono essere più flessibili e i progetti, con il passare del tempo, devono reggersi senza aiuti esterni. Attualmente gli interventi sono numerosi, ma puntuali. Devono essere promossi sul lungo termine, affinché le popolazioni possano prenderne in mano le redini.

E la diaspora?

È una risorsa importante che vogliamo valorizzare di più in futuro. Con la loro esperienza gli ingegneri, i contabili e i medici partiti all’estero possono contribuire all’istruzione e alla formazione dei giovani.

È una strategia per trattenere i giovani che vogliono trasferirsi in altre regioni dell’Africa o emigrare in Europa?

Sì, dobbiamo creare posti di lavoro che soddisfino le esigenze e le potenzialità del Sahel. Bisognerebbe sviluppare, ad esempio, la filiera dell’allevamento, quali la lavorazione della carne, la produzione casearia, ma anche la ristorazione, il turismo. Inoltre dobbiamo riportare l’artigianato al suo antico splendore per creare e vendere localmente i prodotti, piuttosto che importarli dalla Cina.

«I prestiti devono superare gli 85-150 europ abitualmente concessi. Con 500 euro si può avviare una piccola impresa».

Nonostante il loro ruolo socioeconomico cruciale in seno alle comunità, le donne rimangono ai margini della società. Perché?

Le donne saheliane godono di molti diritti, più di altri gruppi etnici africani. Sanno essere autonome, pur rispettando i principi tradizionali. Io, per esempio, ho sempre indossato ilbouboue il foulard. Mi sono sposata a 18 anni, ma questo non mi ha impedito di proseguire gli studi, rimanendo comunque legata alla mia cultura. Il problema attuale è costituito dai matrimoni precoci. Le ragazze abbandonano la scuola all'età di 13 anni, il che riduce le loro prospettive professionali.

Le donne lavorano nell’economia informale, sinonimo di redditi più bassi. Come possono migliorare la loro autonomia finanziaria?

La microfinanza è una possibilità. Esiste già, ma gli importi dei prestiti devono essere aumentati. Si può andare oltre gli 85-150 euro abitualmente concessi. Con 500 euro si può avviare una piccola impresa.

Agricoltori e nomadi si trasferiscono in città alla ricerca di lavoro. Quali sono le conseguenze di questo nuovo stile di vita?

Questi cambiamenti non sono positivi. Le popolazioni del Sahel devono avere l’opportunità di formarsi e di lavorare a casa loro. È indispensabile realizzare progetti di ampia portata, come la costruzione di scuole superiori e l’istituzione di corsi universitari.

Secondo lei, che volto avrà il Sahel tra dieci anni?

Al momento la situazione è talmente complessa che non avrà un bell’aspetto. Dieci anni sono pochi. Gli Stati e i partner tecnici e finanziari devono mettersi subito al lavoro. Ci vorranno almeno trent’anni per ristabilire la sicurezza, edificare infrastrutture di base, ricucire il tessuto sociale ed educare la generazione futura.

AMINATA SY è direttrice della pianificazione territoriale presso la Commissione dell’Unione economica e monetaria ovest-africana UEMOA. Di nazionalità burkinabé, ha lavorato in precedenza presso l’Istituto internazionale di ingegneria idraulica e ambientale 2iE di Ouagadougou e ha ricoperto diverse posizioni di responsabilità a livello internazionale. Ha conseguito un master in scienze giuridiche e un master in diritto, governance e amministrazione europea.

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IMPARA SEMPRE, OVUNQUE TI TROVI

I problemi di sicurezza nel Sahel hanno costretto molte scuole a chiudere i battenti, privando così migliaia di bambini del loro diritto all'istruzione. La radio è stata così trasformata in una scuola mobile che permette ai bambini di seguire le lezioni anche quando sono costretti a spostarsi.

In alcune regioni del Sahel, gruppi di estremisti distruggono, danno alle fiamme e saccheggiando gli edifici scolastici. Di fronte a queste violenze, migliaia di famiglie fuggono dai loro villaggi. Gli insegnanti abbandonano il lavoro e un'intera generazione di bambini non ha più accesso all'istruzione. «Troppo spesso i bambini subiscono le drammatiche conseguenze dei conflitti. Le loro scuole, che un tempo erano oasi di pace dove apprendere, diventano teatro di indicibili violenze», racconta Gordon Brown, inviato speciale delle Nazioni Unite per l'educazione nel mondo.

«Gli attacchi diretti contro scuole, insegnanti e allievi, così come l'occupazione militare degli spazi di apprendimento sono gravi violazioni dei diritti del bambino», prosegue la direttrice generale dell'UNICEF, Henrietta Fore. «Quando sono descolarizzati, specialmente in tempi di conflitto, i bambini non hanno la possibilità di acquisire le competenze necessarie per costruire comunità pacifiche e prospere. Inoltre diventano più vulnerabili di fronte a terribili forme di sfruttamento, in particolare le violenze sessuali e il reclutamento forzato da parte di gruppi armati».

Programmi radiofonici

Per impedire che ciò avvenga, l'UNICEF, con il sostegno della Svizzera, ha sviluppato un programma di istruzione radiofonica per i bambini che non hanno la possibilità di ritornare subito dietro i banchi di scuola. In Burkina Faso, nelle regioni di confine con il Mali e il Niger beneficiano del progetto 875 000 allievi. Le bambine sono poco meno della metà. Le lezioni di scrittura e matematica sono trasmesse alla radio in francese e in diverse lingue nazionali per consentire a tutti di continuare ad imparare, ovunque si trovino.

Dove le scuole sono state chiuse, gli allievi hanno la possibilità di seguire le lezioni in gruppi di ascolto. Vengono dispensati anche corsi su igiene, salute, alimentazione, ambiente, cultura della pace e cittadinanza. I bambini non hanno solo bisogno di un'istruzione, ma anche di sostegno psicosociale in situazioni di crisi. «Sconvolti dalle violenze, evidenziano importanti sintomi post-traumatici», spiega Muriel Gschwend, specialista della DSC per la protezione dell'infanzia. Psicologi e membri della comunità sono formati per rafforzare la resilienza e alleviare la sofferenza dei più vulnerabili. Li aiutano inoltre a superare lo stress e le difficoltà soprattutto attraverso il gioco.

Scuola per bambini sfollati e rifugiati nella regione di Diffa, nel Sud-est del Niger.© Boris Maver/DSC
Scuola per bambini sfollati e rifugiati nella regione di Diffa, nel Sud-est del Niger.© Boris Maver/DSC

Gli insegnanti e gli allievi vengono sensibilizzati ai pericoli degli ordigni inesplosi. Svolgono anche esercizi di simulazione, imparando ad evacuare le aule il più rapidamente possibile e a trovare un rifugio sul posto. Per garantire la sicurezza degli edifici scolastici, sono stati inoltre elaborati piani di riduzione dei rischi.

Carenza di insegnanti

Nel Nord e nel Centro del Mali, la crisi politica e l'insicurezza del 2012 hanno causato la distruzione delle infrastrutture scolastiche e hanno aggravato la carenza di insegnanti. Così, migliaia di bambini non sono stati scolarizzati. Per permettere loro di imparare a leggere, scrivere e far di conto e sperando di poterli integrare in un secondo tempo nel sistema scolastico, la cooperazione svizzera sovvenziona corsi accelerati in centri di formazione comunitari. Una strategia con un tasso di successo superiore al 90 per cento.

Inoltre, la Svizzera ha finanziato un kit educativo per ovviare alla mancanza di materiale didattico. In una valigetta sono riuniti 24 sussidi didattici per le materie francese, matematica, scienze naturali e geografia, realizzati da una cooperativa maliana. Lo scopo è di facilitare il lavoro quotidiano degli insegnanti e, naturalmente, di sostenere l'apprendimento.

Centri di accoglienza

Nel Niger sudorientale, la regione di Diffa continua a subire attacchi da parte di gruppi affiliati a Boko Haram. Dopo i primi atti di violenza del 2015, la DSC ha adattato i suoi programmi di istruzione per consentire ai bambini sfollati e ai rifugiati di ritornare a scuola, nonostante le difficili condizioni. Sono stati creati centri di accoglienza dotati di ricoveri, banchi, acqua potabile e servizi igienici per permettere agli alunni di proseguire la loro formazione scolastica. Per superare i traumi, questi ultimi hanno anche beneficiato di un accompagnamento psico-sociale.

«Nel complesso, a Diffa l'istruzione è migliorata», si rallegra Hassane Amza, ex direttore regionale dell'istruzione primaria. All'inizio della crisi, nella regione i bambini scolarizzati erano poco più di 3000. «Alla fine del 2018, grazie al sostegno dello Stato, dell'UNICEF e soprattutto della cooperazione svizzera oltre 52 mila allievi frequentavano le 218 scuole d'emergenza», conclude Hassane Amza.

Il diritto a un'identità ufficiale

In Mali, il conflitto armato sconvolge non soltanto il corretto funzionamento delle scuole, ma anche l'amministrazione. Dalla crisi del 2012, diverse municipalità e sotto-prefetture hanno sospeso le attività. Nella regione centrale e settentrionale del Paese è diventato più complicato ottenere un certificato di nascita, il che accresce i rischi legati alla mancanza di protezione e diritti fondamentali, compreso quello a un'istruzione. Un'intera generazione di bambini è confrontata sia con la perdita dell'identità giuridica sia con l'abbandono scolastico. Nelle regioni di Mopti e Timbuctù, alcuni centri mobili e fissi sostenuti dalla DSC fungono da intermediari tra le autorità competenti e le comunità per registrare le nascite e consegnare i documenti. La priorità è data aiI certificati di nascita per i bambini in età scolare.


LE DONNE, PROTAGONISTE DEL CAMBIAMENTO

Le donne sono fondamentali per lo sviluppo economico e per la promozione della pace nella regione del Sahel. La Svizzera promuove la loro partecipazione in seno agli organi politici e le aiuta a migliorare il proprio reddito.

Pozzo nel villaggio di Kumutara nella regione di Mayo Kebbi in Ciad. © Franck Charton/hemir.fr/laif
Pozzo nel villaggio di Kumutara nella regione di Mayo Kebbi in Ciad. © Franck Charton/hemir.fr/laif

Dopo gli anni di guerra che hanno sconvolto il Paese, le donne del Ciad vogliono partecipare al processo volto a ristabilire la pace nella regione. Affinché possano sedere nelle istituzioni politiche e dare il loro contributo alla risoluzione dei conflitti, la Divisione Sicurezza umana del DFAE sostiene la risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza dell'ONU sulle donne, la pace e la sicurezza. Lo scopo è di tutelare i diritti delle donne e delle ragazze, rafforzare il loro ruolo nella prevenzione dei conflitti e combattere la violenza di genere.

«Siamo attive e intelligenti. Siamo noi a educare i figli e a trasmettere loro il messaggio di pace che potranno poi tramandare quando saranno adulti. Se non veniamo consultate nella risoluzione dei conflitti è perché non disponiamo di risorse economiche», afferma un'attivista ciadiana della società civile.

Frenare l'erosione dei suoli

Non si può pensare di fare funzionare l'economia di un Paese senza coinvolgere le donne. Il loro contributo è essenziale per garantire la sicurezza alimentare visto che spesso sono loro ad occuparsi dei campi e della famiglia. «Ho otto figli, quattro ragazze e quattro ragazzi. Vanno tutti a scuola. Mio marito è morto. Sono io che nutro l'intera famiglia», racconta Djouma Yahya.

Per migliorare le entrate di Djouma e di altre donne che come lei vivono nella valle di Amsouyoufa, nel centro del Paese, la DSC ha finanziato la costruzione di soglie rialzate lungo i corsi d'acqua che si formano durante la stagione delle piogge. Queste strutture consentono di rallentare il deflusso delle acque piovane, evitando così l'erosione del suolo e la conseguente perdita di superfici coltivabili. Inoltre, penetrando in profondità l'acqua alimenta la falda freatica.

Grazie a queste strutture «si possono far crescere ortaggi anche durante la stagione secca, ciò che non era possibile in passato a causa della penuria d'acqua», spiega Djouma Yahya, che coltiva rucola, fagioli, pomodori, cetrioli, acetosa e angurie. «Con la produzione della scorsa stagione sono riuscita a migliorare l'esistenza della mia famiglia».

Oltre a incrementare la produzione, l'acqua contenuta nei bacini di contenimento «ci permette di abbeverare più a lungo il bestiame», osserva Mohammad Mohaïr, membro del gruppo che gestisce queste opere nella valle di Amsouyoufa. «Un altro effetto positivo è la presenza di pesce nei corsi d'acqua, in particolare pesci gatto e tilapie grazie ai quali possiamo diversificare l'alimentazione».

Artigiane della pace

Anche in Mali le donne sono state estromesse dal processo di pace avviato nel 2013. Eppure la loro partecipazione è essenziale per la riconciliazione nazionale. La cooperazione svizzera sostiene finanziariamente il progetto «Circoli della pace delle donne maliane». Si tratta di momenti di dialogo che rafforzano le competenze delle donne in materia di legislazione, leadership e gestione dei conflitti affinché diventino operatrici di pace. In gruppi, alcune rappresentanti di tutti gli ambienti sociali analizzano i fattori che danno forma o distruggono la pace nei cuori, nelle famiglie e nella società. Giochi di ruolo, scambi e film sulle conseguenze dell'odio, ma anche sul potere del perdono, le aiutano in questo processo. Le partecipanti migliorano la coesione sociale a livello locale e nazionale. Durante le elezioni presidenziali del luglio 2018, ad esempio, hanno condotto campagne di prevenzione della violenza e hanno funto da osservatrici nelle loro regioni.

FATTI & CIFRE

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